«Dai, non piangere». Traducendo il miracolo che un animale compie a contatto con un cucciolo umano ammalato, questa sarebbe la prima frase. Alessia, 12 anni e una malattia «fatta a macchie», così la definisce, appoggia la testa sulla pancia di Tobia. Tenero nido, tanto che si sente vergogna a profanarlo, ma non si può non guardare quello che accade nel reparto di Pediatria del Fatebenefratelli, quando Alessia, Viola, Giovanni stanno con Tobia, Oliver e Pail, un labrador, un setter, un cocker. La grazia del nido è qui, il batuffolo in cui si condensano protezione, letizia, gioco. E cura, visto che è recente la notizia di due bimbi salvati dal diabete da due gatti in America e in Italia. Non osiamo pensare a cosa accadrà quando in questo reparto entrerà il pony già in fase di addestramento per «lavorare» in clinica. La chiamano pet therapy, ma sarebbe meglio definirla terapia del sorriso.
«Per un bambino l’ospedale è luogo di disperazione. Da tre mesi, quando abbiamo i cani in reparto il mercoledì e il giovedì mattina la diminuzione delle lacrime è evidente, come la regolarizzazione del battito cardiaco e del sudore. La pet therapy funziona» afferma il professor Luca Bernardo, direttore del reparto di un ospedale dove le code scodinzolano. «Gli infermieri hanno il compito di sondare la frequenza del battito cardiaco, l’ossigenazione del sangue, il pianto del piccolo paziente prima, durante e dopo il contatto con l’animale. Tra un anno comunicheremo il risultato di una ricerca che viene fatta in Italia per la prima volta» specifica Bernardo, affinché la pet therapy diventi una cura.
di Elena Gaiardoni, per leggere tutto l’articolo clicca QUI

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